Enciclopedia | La conquista delle montagne

Grohmann: Paul Grohmann, conquistatore di numerose vette dolomitiche.
|
La conquista delle montagne
Le Dolomiti vengono scalateLe avventurose battaglie alla conquista delle vette dolomitiche non cominciano di certo con John Ball e la sua prima scalata del monte Pelmo. E Ball stesso, con la sua primitiva passione è forse ancora più una sorta di ricercatore, come molti prima di lui. Egli ama in modo particolare piante e fiori e sono questi a spingerlo sulle montagne. E persino quando raggiunge, presumibilmente per primo, la vetta del monte Pelmo, presta poca attenzione a questo aspetto (come tutti gli eroi delle montagne che si rispettino, egli è anche un ottimo scrittore), concentrandosi invece molto di più sulle piante presenti nella zona della vetta.
|
Cinquant’anni prima, un altro botanico e minerologista si era
comportato in modo analogo. Anche costui, citando brevemente, pur sempre
con orgoglio di aver conquistato la vetta, passò alla storia per le sue
scoperte scientifiche. Infatti alcuni decenni prima, più precisamente
tra il 1791 e il 1794, il padre gesuita Franz von Wulfen, di Klagenfurt,
famoso per le sue scoperte nel campo della botanica e dei minerali parte
alla volta delle montagne di Braies. Scala il Monte Lungo, il Picco di
Vallandro e scrive persino di aver raggiunto la “Croda Rossa, la cima
più alta delle Alpi di Braies”. Questo sarebbe stato sufficiente per
eleggerlo alpinista pioniere delle Dolomiti e farlo entrare nel libro
degli onori degli scalatori alpini, perché si tratta di una delle vette
dolomitiche più difficili da scalare. È vero, che qualcuno ancora oggi
nutre qualche dubbio su questo fatto, ma in effetti potrebbe anche
corrispondere alla verità. Il religioso di Belgrado, nato nel 1728, nel
1794 aveva già 66 anni, ma la sua vitalità non destava preoccupazioni.
Infatti, cinque anni dopo, nel 1799, e questo è dimostrato, tentò
addirittura di scalare la montagna più alta di tutta l’Austria, il
Großglockner … sempre con la suprema benedizione di Dio. Erano presenti
niente di meno che il cardinale Salm-Reifferscheidt, e tanti altri
vescovi e naturalmente corifei di molte zone naturalistiche. Questo
tentativo sicuramente fallì ma, forse protetti dalla mano di Dio,
potevano imparare una quantità di cose nuove sulle scalate in alta
montagna.
Trascorrono pochi anni fino ad un nuovo documentato tentativo di scalata
di una vetta dolomitica: è il 2 agosto 1802. Quel giorno il clero punta
alla conquista della Marmolada, la regina delle Dolomiti. Don Giovanni
Costadedòi, parroco di Ornella di Livinallongo vi è salito già più
volte, entusiasmando i suoi colleghi. Secondo lui il percorso per
arrivarci non è troppo difficile, e la vista di Dio così vicina come in
nessun altro posto. Anche Don Giuseppe Terza di La Valle in Val Badia, e
Don Tommaso Pezzei sono grandi appassionati della montagna. Non sanno
nulla della prima scalata del Monte Bianco nel 1786 e tuttavia
desiderano entrare nel regno di Dio. Non per fama, non per dire che sono
stati i primi ad arrivare in cima, ma semplicemente perché a loro piace.
All’altezza del passo Fedaia pernottano in una malga e il giorno dopo,
di mattina presto, cominciano la scalata. Sono accompagnati da un
chirurgo, il dottor Hauser e dal giudice episcopale Peristi. Si tratta
in ogni caso di un gruppo prestigioso. Senza fermarsi, raggiungono una
cima che precede la vetta vera e propria di soli 50 metri. Ma durante la
discesa purtroppo, ecco la tragedia. Don Giuseppe Terza vuole guardare
ancora un paio di camosci, costeggia i crepacci, ma non ritorna più. Ciò
che accadde esattamente, non è dato sapere.
L’archivio parrocchiale di Livinallongo custodisce ancora impolverato e
nascosto il documento che racconta il triste destino del parroco Don
Giuseppe Terza:
“... e arrivando ai ghiacciai, decise di proseguire da solo nonostante
gli avvertimenti dei suoi compagni di viaggio che si preparavano a
tornare indietro. Procedette, senza curarsi dei terribili rischi e,
nonostante le intense ricerche dei suoi compagni, non venne più
ritrovato vivo. Che riposi in pace! Ma trai un insegnamento e un
suggerimento da questa disgrazia: parroci di ogni dove, restate a casa a
leggere, studiare e pregare...” Le montagne appartengono ancora agli Dei
e si irritano quando li si vuole sfidare. Don Giuseppe Terza è disperso
per sempre e questa disgrazia è stata probabilmente sufficiente per
privare per molti decenni la popolazione del piacere di una scalata
delle montagne.
In quel periodo, ricerca e alpinismo viaggiano mano nella mano. Ne è un
esempio la storia del medico fassano, Francesco Facchini. Il 24 ottobre
1788 nasce a Forno in Val di Fiemme. Studia filosofia a Monaco e
medicina a Pavia e Padova. Poi ritorna in patria. In Val di Fassa si
insedia come medico, ma dedica il suo tempo libero interamente alle
piante e agli alpinisti. Nel 1837 per amore della sua passione, smette
di fare il medico. Francesco Facchini passerà alla storia come primo
descrittore di una serie di piante dolomitiche. Tra queste vi è anche la
sempreviva delle Dolomiti (Sempervivum dolomiticum), uno dei fiori
simbolo di queste montagne. Egli la coglie per la prima volta nella zona
di Soraga ai piedi della Marmolada e la descriverà nel 1850. Facchini
muore poi nel 1852 in Val di Fassa, dove viene sepolto. La sua “Flora
Tiroliae Cisalpinae” viene pubblicata postuma dal botanico tirolese
Franz von Haussmann; una sorta di primo riassunto delle piante presenti
in Tirolo, di cui ne vengono descritte 2100, l’80 % dei tipi noti oggi.
Del resto, anche la più significativa performance alpinistica di John
Ball nelle Dolomiti, ovvero la prima scalata del monte Pelmo, con cui si
vuole curiosamente dimostrare l’inizio dell’alpinismo nelle Dolomiti, dà
adito a qualche dubbio, per svariati motivi. Da un lato ci sono le
descrizioni di Wilhelm Fuchs, un consigliere alpino ungherese attivo
della zona di Agordo, che già nel 1844 in un’opera di geologia da lui
pubblicata dal titolo “Die Venetianer Alpen, ein Beitrag zur Kenntnis
der Hochgebirge” (Le Alpi venete, un contributo alla conoscenza
dell’alta montagna) non solo misura con precisione l’altezza del Monte
Pelmo (3.162,8 m) e riporta gli strati geologici fino alla zona della
vetta, notando che l’ultima parte è costituita da strati di conchiglie,
ma la sua passione per i fiori lo porta in un altro punto a stabilire
come alcune specie di sassifraga crescano fino a 9000 piedi (2923 m).
“Più in alto non ho più trovato fanerogame”. Sembrerebbe quindi aver
raggiunto proprio questa altezza nelle Dolomiti. Fuchs non visse a
lungo: qualche anno dopo partecipa infatti ad una rivolta contro la
repressione delle minoranze nel regno asburgico, fugge in Serbia, dove
nel 1849 muore in circostanze misteriose.
Ma non è tutto. Belli Battista Vecchio, un audace cacciatore, afferma
ancora prima del 1856, di essere arrivato sulla vetta del monte Pelmo e
di aver trovato sulla sua strada i resti di un tubo da forno e di uno
scheletro umano.
Questa è la situazione fino al 19 settembre 1857, quando John Ball alle
tre del mattino parte da Borca di Cadore con l’unico obiettivo di
scalare il Monte Pelmo. La vita di Ball è variegata. Nasce il 28 agosto
1818 a Dublino, da una famiglia benestante. A 9 anni vede le montagne
svizzere e ne rimane affascinato. Si reca sugli Alti Tauri, per
dedicarsi dal 1854 alla sua grande passione: la botanica. Approda a
Bassano del Grappa, dove visita il giardino botanico di Alberto Parolini,
anche lui abbiente erudito, dai molteplici interessi. Lì non trova
soltanto fiori, ma anche un grande amore, Elisa Parolini, la figlia del
padrone di casa. “L´uomo al quale legherò il mio destino merita certo
tutta la mia stima e la mia simpatia; ... Ma purtroppo v´ha una
condizione crudele: la lontananza.” Questo scrive pensierosa Elisa prima
del matrimonio, perché John è senza tregua. Diventa deputato in Irlanda,
poi viaggia per mezza Europa per dedicarsi ai suoi studi botanici. A
metà settembre parte da Bassano del Grappa intenzionato a scalare l’Antelao
o la Marmolada. Arriva invece al Pelmo, quando ancora tutto il Veneto è
parte dell’impero austriaco.
Inizia il suo viaggio accompagnato da un uomo che passerà alla storia
come cacciatore di camosci, perché John Ball non ne dice il nome. Ma non
solo, nelle sue descrizioni Ball, ha sempre parole umilianti per il
povero indigeno, che secondo lui fa di tutto per rendergli inutilmente
difficile la scalata della vetta. Pur dovendo combattere contro la
montagna e contro la caparbia guida, il nobile signore inglese riesce
ugualmente a raggiungere il suo scopo. «Arrivammo presto ad una roccia
molto ripida, dove la guida sperava di indurmi a tornare indietro....
All’altezza di un piccolo altopiano, la guida, raggiante, mi disse che
eravamo arrivati al punto più alto. Quando obiettai che il rilievo si
trovava sull’altro lato della vetta, la guida ribatté che non vi era
nessun motivo per andare ancora più in alto, soprattutto perché data la
struttura della roccia, sarebbe stato comunque impossibile.” Il
cacciatore di camosci non vuole continuare, vuole convincere l’irlandese
a tornare giù con lui. Tuttavia John Ball non si lascia fuorviare. “Poi
poco dopo, la guida mi passò accanto per valutare la nostra posizione.
Mi si parò davanti e affermò fermamente che non era possibile
proseguire. ... Io invece vagliai l’ipotesi di una scalata, ma la guida
mi pregò di non proseguire, perché lì cominciava la «Croda morta...».
Nonostante le sue continue proteste, andai avanti, lentamente verso la
cima. La guida restò indietro. «.. .verso l’una ero sulla cima del monte
Pelmo», così scrive John Ball nel suo diario. Un anno dopo, il 31 marzo
1858 viene eletto primo presidente del neo istituito “Alpine Club”, la
prima associazione al mondo di alpinisti, e nel marzo dello stesso anno
nasce il suo primo figlio. Ne segue un secondo, poi però sua moglie
muore. John Ball allora si risposa, e questa volta con una nobile
inglese di 21 anni più giovane di lui. Comincia a viaggiare in
Sudamerica, nei Caraibi. Nel 1889, a 71 anni, è nell’Engadina, in
Svizzera, dove si ammala gravemente. Riesce però a ritornare in patria
dove muore il 21 ottobre 1889.
John Ball segna così la fine di un’epoca. Il passaggio da ricercatore ad
alpinista puro, per il piacere di scalare una montagna e per conquistare
fama e notorietà. Infatti pochi anni dopo, nel 1862 ecco arrivare Paul
Grohmann, un altro pioniere, con un modo di pensare forse ancora
scientifico, ma che già punta soltanto alla scalata della vetta
dolomitica. Non molti anni dopo, sarebbe stato chiamato “re delle
Dolomiti”. All’inizio anch’egli è più orientato verso la ricerca.
Insieme con altri due studenti di giurisprudenza, Guido di Sommaruga ed
Edmund di Mojsisovics, che in qualità di paleontologo e geologo nelle
Dolomiti ne avrebbero descritto la storia della formazione, nel 1862
fonda “L’associazione alpina austriaca”, sulla scia dell’Alpine Club
fondato anni prima.
Fin dall’inizio ciò che più conta, è la divulgazione delle bellezze
della montagna. Grohmann e Moijsiovics si impegnano subito, come
direttori di “Mitteilungen”, una rivista che doveva diventare un punto
di partenza letterario per gli appassionati, a presentare il loro modo
di vedere le montagne. E ai loro occhi conta tutto ciò che può servire
ad ampliare le conoscenze del mondo montano, le scalate alle vette e le
ricerche naturalistiche. Nell’agosto 1862 Paul Grohmann arriva per la
prima volta nelle Dolomiti.
“Quando dalle cime dei Tauri, che avevo attraversato fino ad allora,
scorsi verso sud forme da favola, su cui anche il libro migliore dava
ben poche informazioni, un mondo montano, da molti punti di vista ancora
velato di mistero, decisi di andare nelle Dolomiti e di lavorare lì.”
Paul Grohmann nasce nel 1838 a Vienna da genitori benestanti, che gli
consentono di ricevere un’ottima educazione. Appena quindicenne viaggia
attraverso l’Europa, e ben presto le montagne diventano la sua grande
passione. Nell’agosto del 1862 trascorre solo pochi giorni nelle
Dolomiti, più che sufficienti per andare a trovare, Pellegrino
Pellegrini (1820-1891) di Rocca Pietore, una delle prime “guide alpine”.
Vuole raggiungere la vetta della Marmolada. Paul Grohmann è la prima
persona che desidera vedere il proprio nome scritto nel libro delle
prime assolute, con qualunque mezzo. E questo con una certa dose di
arroganza. In quell’anno però raggiunge solo la Marmolada di Rocca, ma
questo non gli impedisce di presentarsi l’anno dopo con ancora maggiore
ambizione a Cortina d´Ampezzo. Ha una fiducia illimitata nei confronti
del vecchio Francesco Lacedelli «Checco de Melères». Nel 1809, a soli
tredici anni, aveva già combattuto contro le truppe napoleoniche; a 67 è
saldo come una fortezza, fisicamente in ottima forma e dotato di uno
straordinario senso dell’orientamento. Il 29 agosto 1863 arriva sulla
Tofana di Mezzo, poi è la volta dell’Antelao. Quando Grohmann viene a
sapere che già nel 1850 un certo Matteo Ossi ha raggiunto l’Antelao,
decide di tentare una scalata alla vetta con lui. E la descrizione
seguente, dal libro “Wanderungen durch die Dolomiten” (passeggiate nelle
Dolomiti) pubblicato da Grohmann nel 1877, esprime lo spirito di quel
periodo e la brama di notorietà che lo caratterizzava. “Matteo Ossi
disse di essere pronto ad accompagnarmi, ma ad un certo punto ha
cominciato a pensarci, ha accampato scuse, ha dichiarato di aver
sbagliato; in poche parole, non ritrovava più la strada … Ma le mie
coraggiose guide ampezzane hanno subito individuato la giusta via. Alle
ore 11.45 salimmo sulla cima dell’Antelao, e credo di poter affermare
che raggiungemmo una vetta mai toccata prima.” L’Antelao “apparteneva” a
Paul Grohmann, che cominciò a contestare persino la prima assoluta del
Monte Pelmo da parte di John Ball.
Nel 1864, pieno di passione, è di nuovo sul posto. Alla prima scalata
della Tofana di Rozes (3.225 m) il 29 agosto 1864, si aggregano
spontaneamente due giovani abitanti di Cortina: Angelo Dimai e Santo
Siorpaes. La febbre delle montagne si era impadronita anche di loro. Il
16 settembre 1864, Paul Grohmann è sul Sorapis. (3.205 m). Poi vuole
conquistare la Marmolada, ovvero la cima più alta delle Dolomiti. La
cresta si suddivide in diverse vette, con altezza decrescente da ovest
ad est: Punta Penia (3.343 m), Punta Rocca (3.309 m), Punta Ombretta
(3.230 m), Monte Serauta (3.069 m) e Pizzo Serauta (3.035 m). Nel 1860
John Ball insieme con la guida alpina Tairraz era arrivato soltanto fino
alla ben più bassa Punta Rocca (3.309 m). Il 28 settembre 1864, invece,
sarebbe stato finalmente il giorno della conquista. Insieme con le due
affermate guide alpine ampezzane Angelo e Fulgenzio Dimai, ormai non tra
le più giovani (45 anni), il ventiseienne Paul Grohmann raggiunge la
vetta più alta di tutte le Dolomiti.
E negli anni successivi altre prime assolute: il Monte Cristallo, e il
Boè, poi Paul Grohmann volge la sua attenzione alle montagne attorno
alla Val Gardena e di Sesto. Il 1869 è l’anno di maggior successo: sulla
cima dei Tre Scarperi nelle Dolomiti di Sesto sale con Franz Innerkofler
e Peter Salcher; sempre con loro cerca di conquistare il re dei monti
della Val Gardena, il Monte Lungo e ci riesce: Paul Grohmann è
sicuramente il maggiore tra gli scalatori delle Dolomiti. Il 21 agosto
1869 conquista anche la vetta più spettacolare: la Cima Grande. Pubblica
descrizioni e tiene relazioni, contribuisce alla creazione
dell’associazione alpina, rende l’alpinismo molto popolare nella sua
terra natale, ma 1873 il destino gli gioca un brutto tiro. Il benestante
Paul Grohmann diventa di colpo povero: subisce un tracollo finanziario,
perde tutto il suo patrimonio e diventerà un debitore a vita. Ormai è
troppo vecchio per iniziare un nuovo lavoro e troppo orgoglioso per
farsi aiutare. Vende ciò di cui può ancora privarsi, poi si ritira a
Vienna in una stanzetta con un misero arredamento e continua a lavorare
in silenzio a ciò che gli sta veramente a cuore: un libro sulle
Dolomiti.
Paul Grohmann non è comunque l’unico. I Britannici possono ancora
disporre di un’elite di scalatori ben preparata. Il 20 giugno 1870, E.
R. Whitwell, la guida alpina ampezzana Santo Siorpaes e lo svizzero
Christian Lauener riescono a raggiungere per la prima volta la «Hohe
Geisel» (Croda Rossa, 3.148 m) che Paul Grohmann aveva mancato di poco,
in precedenza avevano già conquistato Piz Popena nel massiccio del
Cristallo (3152 m) e il Cervino delle Dolomiti, il Cimone della Pala
(3.184 m). Tutte le vette sopra ai tremila rappresentavano comunque
un’ottima performance. Nell’arco di vent’anni, austriaci ed inglesi
erano riusciti a conquistare quasi tutte le vette dolomitiche, o
comunque rendevano note le loro “vittorie storiche” nei libri principali
delle associazioni alpine. Ai locali avevano lasciato solo le briciole.
Verso il 1860 uno scalatore di Agordo, Simone de Silvestro, è il primo
uomo ad arrivare sul Civetta.
Ma le Dolomiti di Sesto racchiudevano altre due cime importanti non
ancora raggiunte: la Cima Piccola e quella Ovest. Michl Innerkofler, una
guida di Sesto, fa parte dell’elite di scalatori di quel periodo. Il 31
agosto 1879 viene conquistata la Cima Ovest. Michl Innerkofler e Georg
Ploner si dice siano stati i primi ad arrivare in cima. Nel 1880 Michl
Innerkofler raggiunge in solitaria la Punta di Grohmann nella zona del
Sassolungo, una scalata estremamente difficile. Nello stesso anno, il 2
luglio 1880, lo scalatore bolzanino Johann Santner aveva raggiunto allo
stesso modo una vetta nella zona dello Sciliar, che lo rese subito
famoso: la cima Santner. Il 25 luglio 1881, verso le 8.55 Michl
Innerkofler e suo fratello Hans sono i primi uomini ad arrivare sulla
Cima Piccola che, dato il suo quarto grado di difficoltà, rappresentava
una scalata fino ad allora impensabile.
La maggior parte delle cime dolomitiche diventa quindi oggetto di prime
assolute, sempre più uomini si riversano per i motivi più disparati
nelle valli dolomitiche. A questo punto sopraggiunge la terza parte
dell’arte dell’arrampicata. Dopo la fusione tra ricerca e alpinismo fino
al 1850 e il periodo delle prime ascensioni fino al 1880, ha inizio una
corsa alle varianti più difficili di queste montagne. E da questo punto
di vista le Dolomiti offrivano i migliori presupposti in assoluto. Nel
1879 il viennese Emil Zsigmondy arriva a Sesto, dove osserva le vette
più pronunciate. “Molte sono strutturate come aghi e nessun uomo potrà
arrivare in cima senza utilizzare strumenti artificiali, come perni di
ferro o scale”, scrive con grande entusiasmo. Cominciano le scalate
fatte solo per il gusto di farlo, il gioco sul precipizio, dove gli
innovatori devono prima creare un significato e poi farne capire
l’importanza e la stravaganza al grande pubblico. Zsigmondy compie
imprese pionieristiche nelle Dolomiti e diffonde l’alpinismo estremo.
Purtroppo però ha vita breve: nel 1885 infatti, appena ventiquattrenne,
muore precipitando nelle Alpi francesi. L’orazione funebre rappresenta
una buona occasione per fare un bilancio. “È stato travolto dal destino,
proprio come un soldato nel fervore della battaglia”. La lotta alla
conquista delle montagne si trasforma in una vera e propria guerra. Una
questione di sopravvivenza. L’orazione funebre per Zsigmondy diventa
un’incitazione a combattere: “Per lui l’alpinismo era un intimo bisogno,
ed egli ha contribuito alla realizzazione di una parte di quell’opera
culturale in cui l’umanità è impegnata ormai da secoli in mille modi
diversi e che continuerà finché anche solo l’ultimo esemplare della
razza umana avrà un alito di vita”. La morte in montagna entra così a
far parte della “cultura alpinistica”.
Il 20 agosto 1888, Michl Innerkofler muore sul Cristallo, una vetta su
cui era salito più di trecento volte. “Michl Innerkofler non è riuscito
a trattenere il doppio carico nella caduta, per cui ha urtato il bordo
del crepaccio con una forza tale da spaccarsi il cranio, per poi cadere
silenziosamente sul fondo”, scriverà un anno dopo la rivista del club
alpino. Dalla cima, la guida cortinese Pietro Dimai assiste alla
disgrazia. “Abbiamo sentito subito le grida di aiuto degli sfortunati e
alla mia domanda su dove fosse Michel, mi fu risposto tristemente: anche
lui è qui. Subito fu calata la corda e per primo fu tirato su il corpo
senza vita di Michael Innerkofler, terribilmente sfigurato. Il lato
sinistro della testa su cui il poveretto aveva sbattuto era
completamente fracassato, i denti e gli occhi rotti, tanto da rendere la
testa completamente irriconoscibile.“ Quando a Josef Innerkofler, una
delle maggiori guide alpine di allora, viene riferito della morte di
Innerkofler, stando a quanto si dice, sarebbe saltato in piedi dal
tavolo della sua “Stube”, urlando orgoglioso: “Adesso sono io il re
delle Dolomiti!” Un commento terribile, soprattutto perché quattro anni
dopo morì anch’egli con un altro alpinista durante una spedizione verso
la Cima Cinque Dita nelle Dolomiti della Val Gardena.
Ancor più breve è la vita di Georg Winkler, di Monaco. A 17 anni
conquista in solitaria la Cima della Madonna nel gruppo delle Pale, si
arrampica su per le creste dolomitiche ad alto rischio e al limite delle
tecniche allora disponibili. Il 17 settembre 1887 raggiunge in solitaria
la torre più ad est delle tre torri meridionali di Vajolet, da col
momento chiamata in suo onore “torre di Winkler”. Ma appena un anno
dopo, appena diciannovenne, muore sotto una valanga sul Weißhorn nelle
Alpi Valaisannes in Svizzera durante una solitaria. “Sono il pericolo e
l’infinita bellezza dell’alta montagna insieme che ci attraggono come
demoni”, scrive poco prima di morire. 68 anni dopo il ghiaccio avrebbe
restituito il suo tipico cappello di pelle, le scarpe da montagna, un
pezzo di corda di canapa.
L’elenco dei temerari tuttavia non finisce qui. All’età di quindi anni,
Viktor Wolf di Glanwell arriva nelle Dolomiti di Braies, a diciannove
anni il bambino prodigio pubblica già le sue prime guide alpine, nel
1902 scrive con Günther Freiherr di Saar la storia alpina. Una delle
torri rocciose più scoscese delle Dolomiti friulane è il Campanile della
Val Montanara, alto 2.171 m. I primi a decidere di scalarlo furono gli
alpinisti triestini Napoleone Cozzi e Alberto Zanutti, che tentarono
l’arrampicata il 7 settembre 1902, ma dovettero arrestarsi a pochi metri
dalla cima, lasciando un ometto di pietra in quel punto. Glanvell e Saar
incontrarono per caso i due triestini in una taverna e questi
raccontarono la loro avventura, dichiarando che, in quelle circostanze e
con quei mezzi tecnici, la cima era a loro avviso impossibile da
conquistare. A dispetto di questo, il 17 settembre 1902 Glanvell e Saar
si misero in cammino poiché dopo attento studio ritenevano di aver
trovato il modo di portare a termine con successo l’arrampicata, cosa
che puntualmente avvenne, mentre le loro mogli li seguivano con lo
sguardo.
Tre anni dopo una valanga rocciosa stronca la vita del trentaquattrenne
Glanvell. Il 12 agosto 1897, Carlo Garbari, il miglior alpinista
trentino, oramai scoraggiato, lascia un biglietto nella zona della
Guglia di Brenta: “Auguro più fortuna a tutti quelli che potranno vedere
questo biglietto!” Troppo spesso aveva dovuto arrendersi a questa
difficile guglia, “la torre delle torri”, una sorta di obelisco libero,
alto trecento metri, che oramai non credeva più possibile fosse vinta.
La sua rinuncia fu sufficiente per spingere due scalatori di Innsbruck
Otto Ampferer e Karl Berger a tentare a loro volta la conquista: a loro
riuscirà l’impossibile e conquisteranno la guglia.
Nemmeno Paul Preuß, un altro scalatore delle Dolomiti, ebbe vita lunga:
“Se non si riesce a scendere, non si deve nemmeno salire!”, dice.
Interpreta l’uomo come misura di tutte le cose e rifiuta ogni ausilio
tecnico. “La gente dondola su superfici lisce avanti e indietro, intere
montagne vengono scalate semplicemente manovrando le corde. E tuttavia
l’esperienza insegna che molti di questi punti devono essere scalati
liberamente, in caso contrario, è meglio lasciar perdere”, scrive nella
Deutsche Alpenzeitung del 1911. A 27 anni anche Paul Preuß trova la
morte durante una scalata. In ultima istanza l’alpinismo attira anche
perché è pericoloso. Cima dopo cima, picco dopo picco per il piacere di
appassionati di alpinismo, locali ma anche stranieri, che prima avevano
dovuto dedicare tutte le loro energie come contadini per procacciarsi di
che vivere nei loro poveri masi, ma cui ora il denaro della perlopiù
strana e ricca avventura porta benessere e invidia. Gli Innerkofler di
Sesto, i Dimai, Siorpaes, Angelo Dibona di Cortina, Tita Piaz e Luigi
Rizzi di Val di Fassa riescono, grazie alle loro imprese, ad elevarsi
dal ceto contadino. Gli scalatori che accorrono da ogni parte del mondo,
pagano profumatamente per essere guidati dalla gente del posto,
aggiudicandosi per contro la fama eterna di primi conquistatori.
Nell’estate del 1900, Tita Piaz, originario di Pera in Val di Fassa e
povero in canna, tanto da farsi regalare dal famoso albergatore Theodor
Christomannos i soldi necessari per comprare un paio di scarponi da
montagna, supera una crepa verticale nella parete di Punta Emma. Rischia
la vita più volte, ma da quel momento in poi diventa per tutti il
“Diavolo delle Dolomiti”. Nel 1915 Tita Piaz viene fatto prigioniero
dagli austriaci perché ritenuto un “irredentista” filoitaliano, nel 1920
i nuovi italiani al potere lo eleggono sindaco, nel 1930 viene
nuovamente arrestato sotto il regime fascista per incitamento alla
sovversione, quindi viene liberato per poi tornare in prigione nel 1944,
questa volta per mano della Gestapo tedesca. Questo alpinista estremo,
sobillatore, cuore indomabile, non muore in montagna, ma nel 1948
cadendo dalla bicicletta.
Le Tre Cime di Lavaredo, il Civetta, le Pale di San Martino, la parete
meridionale della Marmolada: sono questi i sogni di allora. Le proprie
audaci imprese, magari abbellite oppure leggermente falsate da avventure
e azioni eroiche, potevano essere raccontate a tutto il mondo.
Tratto dal libro:
Michael Wachtler
La storia delle Dolomiti
|