La scalata delle Dolomiti

Le Dolomiti vengono scalate

Solo dopo che botanici, geologi e altri scienziati hanno vagato per le montagne alla ricerca di nuove scoperte, si è cominciato a porsi nuovi obiettivi. E questi – sorprendentemente, si cercavano nell’arrampicata e conquista delle vette e, più tardi, anche nella scelta di vie nuove sempre più bizzarre.

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Solo dopo che botanici, geologi e altri scienziati hanno vagato per le montagne alla ricerca di nuove scoperte, si è cominciato a porsi nuovi obiettivi. E questi – sorprendentemente, si cercavano nell’arrampicata e conquista delle vette e, più tardi, anche nella scelta di vie nuove sempre più bizzarre.
Se da millenni cacciatori e pastori avevano raggiunto le più alte regioni rocciose, ed alcune vette avevano scalato sicuramente involontariamente, ora la corsa cominciò a degenerare in una gara. Si scatenò come dal nulla una lotta per le vette delle Dolomiti, nella quale non mancarono incomprensioni e tragedie, ma anche egoismi e disonestà. Molte storie devono essere riscritte, molto succedeva sicuramente diversamente da come ci viene descritto. «Chi scrive fa la storia» e non poche volte può anche falsificare la storia.
Le avventure della lotta per le vette dolomitiche non iniziano certamente con John Ball e la sua prima scalata del Pelmo.

L‘ irlandese Ball apparteneva di diletto più ad un ricercatore, come altri prima di lui. Egli seguì l’amore esplicito per le piante e i fiori che lo spinse sulle montagne. E anche quando arrivò sulla vetta del Pelmo, dedicò meno attenzione alla sua prima scalata cosciente, quanto invece all’interessante flora sulla vetta.

Cinquant’anni prima, un altro botanico e mineralogista si era comportato in modo analogo. Anche costui, citando brevemente, pur sempre con orgoglio di aver conquistato la vetta, passò alla storia per le sue scoperte scientifiche. Infatti, alcuni decenni prima, più precisamente tra il 1791 e il 1794, il padre gesuita Franz von Wulfen, di Klagenfurt, famoso per le sue scoperte nel campo della botanica e dei minerali, parte alla volta delle montagne di Braies. Scala il Monte Lungo, il Picco di Vallandro e scrive persino di aver raggiunto la “Croda Rossa, la cima più alta delle Alpi di Braies”. Questo sarebbe stato sufficiente per eleggerlo alpinista pioniere delle Dolomiti e farlo entrare nel libro degli onori degli scalatori alpini, perché si tratta di una delle vette dolomitiche più difficili da scalare. È vero che qualcuno ancora oggi nutre qualche dubbio su questo fatto, ma in effetti potrebbe anche corrispondere alla verità. Il religioso di Belgrado, nato nel 1728, nel 1794 aveva già 66 anni, ma la sua vitalità non destava preoccupazioni. Infatti, cinque anni dopo, nel 1799, e questo è dimostrato, tentò addirittura di scalare la montagna più alta di tutta l’Austria, il Großglockner … sempre con la suprema benedizione di Dio. Erano presenti niente di meno che il cardinale Salm-Reifferscheidt, e tanti altri vescovi e naturalmente corifei di molte zone naturalistiche. Questo tentativo sicuramente fallì ma, forse protetti dalla mano di Dio, potevano imparare una quantità di cose nuove sulle scalate in alta montagna.

Trascorrono pochi anni fino ad un nuovo documentato tentativo di scalata di una vetta dolomitica: è il 2 agosto 1802. Quel giorno il clero punta alla conquista della Marmolada, la regina delle Dolomiti. Don Giovanni Costadedòi, parroco di Ornella di Livinallongo vi è salito già più volte, entusiasmando i suoi colleghi. Secondo lui il percorso per arrivarci non è troppo difficile, e la vista di Dio così vicina come in nessun altro posto. Anche Don Giuseppe Terza di La Valle in Val Badia, e Don Tommaso Pezzei sono grandi appassionati della montagna. Non sanno nulla della prima scalata del Monte Bianco nel 1786 e tuttavia desiderano entrare nel regno di Dio. Non per fama, non per dire che sono stati i primi ad arrivare in cima, ma semplicemente perché a loro piace. All’altezza del passo Fedaia pernottano in una malga e il giorno dopo, di mattina presto, cominciano la scalata. Sono accompagnati da un chirurgo, il dottor Hauser e dal giudice episcopale Peristi. Si tratta in ogni caso di un gruppo prestigioso. Senza fermarsi, raggiungono una cima che precede la vetta vera e propria di soli 50 metri. Ma durante la discesa purtroppo, ecco la tragedia. Don Giuseppe Terza vuole guardare ancora un paio di camosci, costeggia i crepacci, ma non ritorna più. Ciò che accadde esattamente non è dato sapere.

L’archivio parrocchiale di Livinallongo custodisce ancora impolverato e nascosto il documento che racconta il triste destino del parroco Don Giuseppe Terza: “… e arrivando ai ghiacciai, decise di proseguire da solo nonostante gli avvertimenti dei suoi compagni di viaggio che si preparavano a tornare indietro. Procedette, senza curarsi dei terribili rischi e, nonostante le intense ricerche dei suoi compagni, non venne più ritrovato vivo. Che riposi in pace! Ma trai un insegnamento e un suggerimento da questa disgrazia: parroci di ogni dove, restate a casa a leggere, studiare e pregare …” Le montagne appartengono ancora agli Dei e si irritano quando li si vuole sfidare. Don Giuseppe Terza è disperso per sempre e questa disgrazia è stata probabilmente sufficiente per privare per molti decenni la popolazione del piacere di una scalata delle montagne.

In quel periodo, ricerca e alpinismo viaggiano mano nella mano. Ne è un esempio la storia del medico fassano, Francesco Facchini. Il 24 ottobre 1788 nasce a Forno in Val di Fiemme. Studia filosofia a Monaco e medicina a Pavia e Padova. Poi ritorna in patria. In Val di Fassa si insedia come medico, ma dedica il suo tempo libero interamente alle piante e agli alpinisti. Nel 1837 per amore della sua passione, smette di fare il medico. Francesco Facchini passerà alla storia come primo descrittore di una serie di piante dolomitiche. Tra queste vi è anche la sempreviva delle Dolomiti (Sempervivum dolomiticum), uno dei fiori simbolo di queste montagne. Egli la coglie per la prima volta nella zona di Soraga ai piedi della Marmolada e la descriverà nel 1850. Facchini muore poi nel 1852 in Val di Fassa, dove viene sepolto. La sua “Flora Tiroliae Cisalpinae” viene pubblicata postuma dal botanico tirolese Franz von Haussmann; una sorta di primo riassunto delle piante presenti in Tirolo, di cui ne vengono descritte 2100, l’80 % dei tipi noti oggi.

Del resto, anche la più significativa performance alpinistica di John Ball nelle Dolomiti, ovvero la prima scalata del monte Pelmo, con cui si vuole curiosamente dimostrare l’inizio dell’alpinismo nelle Dolomiti, dà adito a qualche dubbio, per svariati motivi. Da un lato ci sono le descrizioni di Wilhelm Fuchs, un consigliere alpino ungherese attivo della zona di Agordo, che già nel 1844 in un’opera di geologia da lui pubblicata dal titolo “Die Venetianer Alpen, ein Beitrag zur Kenntnis der Hochgebirge” (Le Alpi venete, un contributo alla conoscenza dell’alta montagna) non solo misura con precisione l’altezza del Monte Pelmo (3.162,8 m) e riporta gli strati geologici fino alla zona della vetta, notando che l’ultima parte è costituita da strati di conchiglie, ma la sua passione per i fiori lo porta in un altro punto a stabilire come alcune specie di sassifraga crescano fino a 9000 piedi (2923 m). “Più in alto non ho più trovato fanerogame”. Sembrerebbe quindi aver raggiunto proprio questa altezza nelle Dolomiti. Fuchs non visse a lungo: qualche anno dopo partecipa infatti ad una rivolta contro la repressione delle minoranze nel regno asburgico, fugge in Serbia, dove nel 1849 muore in circostanze misteriose.
Ma non è tutto. Belli Battista Vecchio, un audace cacciatore, afferma ancora prima del 1856, di essere arrivato sulla vetta del monte Pelmo e di aver trovato sulla sua strada i resti di un tubo da forno e di uno scheletro umano.

Questa è la situazione fino al 19 settembre 1857, quando John Ball alle tre del mattino parte da Borca di Cadore con l’unico obiettivo di scalare il Monte Pelmo. La vita di Ball è variegata. Nasce il 28 agosto 1818 a Dublino, da una famiglia benestante. A 9 anni vede le montagne svizzere e ne rimane affascinato. Si reca sugli Alti Tauri, per dedicarsi dal 1854 alla sua grande passione: la botanica. Approda a Bassano del Grappa, dove visita il giardino botanico di Alberto Parolini, anche lui abbiente erudito, dai molteplici interessi. Lì non trova soltanto fiori, ma anche un grande amore, Elisa Parolini, la figlia del padrone di casa. “L’uomo al quale legherò il mio destino merita certo tutta la mia stima e la mia simpatia; … Ma purtroppo v´ha una condizione crudele: la lontananza.” Questo scrive pensierosa Elisa prima del matrimonio, perché John è senza tregua. Diventa deputato in Irlanda, poi viaggia per mezza Europa per dedicarsi ai suoi studi botanici. A metà settembre parte da Bassano del Grappa intenzionato a scalare l’Antelao o la Marmolada. Arriva invece al Pelmo, quando ancora tutto il Veneto è parte dell’impero austriaco.

Inizia il suo viaggio accompagnato da un uomo che passerà alla storia come cacciatore di camosci, perché John Ball non ne dice il nome. Ma non solo, nelle sue descrizioni Ball, ha sempre parole umilianti per il povero indigeno, che secondo lui fa di tutto per rendergli inutilmente difficile la scalata della vetta. Pur dovendo combattere contro la montagna e contro la caparbia guida, il nobile signore inglese riesce ugualmente a raggiungere il suo scopo. «Arrivammo presto ad una roccia molto ripida, dove la guida sperava di indurmi a tornare indietro … All’altezza di un piccolo altopiano, la guida, raggiante, mi disse che eravamo arrivati al punto più alto. Quando obiettai che il rilievo si trovava sull’altro lato della vetta, la guida ribatté che non vi era nessun motivo per andare ancora più in alto, soprattutto perché data la struttura della roccia, sarebbe stato comunque impossibile.” Il cacciatore di camosci non vuole continuare, vuole convincere l’irlandese a tornare giù con lui. Tuttavia John Ball non si lascia fuorviare. “Poi poco dopo, la guida mi passò accanto per valutare la nostra posizione. Mi si parò davanti e affermò fermamente che non era possibile proseguire. … Io invece vagliai l’ipotesi di una scalata, ma la guida mi pregò di non proseguire, perché lì cominciava la «Croda morta …». Nonostante le sue continue proteste, andai avanti, lentamente verso la cima. La guida restò indietro. «… verso l’una ero sulla cima del monte Pelmo», così scrive John Ball nel suo diario. Un anno dopo, il 31 marzo 1858 viene eletto primo presidente del neo istituito “Alpine Club”, la prima associazione al mondo di alpinisti, e nel marzo dello stesso anno nasce il suo primo figlio. Ne segue un secondo, poi però sua moglie muore. John Ball allora si risposa, e questa volta con una nobile inglese di 21 anni più giovane di lui. Comincia a viaggiare in Sudamerica, nei Caraibi. Nel 1889, a 71 anni, è nell’Engadina, in Svizzera, dove si ammala gravemente. Riesce però a ritornare in patria dove muore il 21 ottobre 1889.

John Ball segna così la fine di un’epoca. Il passaggio da ricercatore ad alpinista puro, per il piacere di scalare una montagna e per conquistare fama e notorietà. Infatti pochi anni dopo, nel 1862 ecco arrivare Paul Grohmann, un altro pioniere, con un modo di pensare forse ancora scientifico, ma che già punta soltanto alla scalata della vetta dolomitica. Non molti anni dopo, sarebbe stato chiamato “re delle Dolomiti”. All’inizio anch’egli è più orientato verso la ricerca. Insieme con altri due studenti di giurisprudenza, Guido di Sommaruga ed Edmund di Mojsisovics, che in qualità di paleontologo e geologo nelle Dolomiti ne avrebbero descritto la storia della formazione, nel 1862 fonda “L’associazione alpina austriaca”, sulla scia dell’Alpine Club fondato anni prima.

Fin dall’inizio ciò che più conta, è la divulgazione delle bellezze della montagna. Grohmann e Moijsiovics si impegnano subito, come direttori di “Mitteilungen”, una rivista che doveva diventare un punto di partenza letterario per gli appassionati, a presentare il loro modo di vedere le montagne. E ai loro occhi conta tutto ciò che può servire ad ampliare le conoscenze del mondo montano, le scalate alle vette e le ricerche naturalistiche. Nell’agosto 1862 Paul Grohmann arriva per la prima volta nelle Dolomiti.
“Quando dalle cime dei Tauri, che avevo attraversato fino ad allora, scorsi verso sud forme da favola, su cui anche il libro migliore dava ben poche informazioni, un mondo montano, da molti punti di vista ancora velato di mistero, decisi di andare nelle Dolomiti e di lavorare lì.”

Paul Grohmann nasce nel 1838 a Vienna da genitori benestanti, che gli consentono di ricevere un’ottima educazione. Appena quindicenne viaggia attraverso l’Europa, e ben presto le montagne diventano la sua grande passione. Nell’agosto del 1862 trascorre solo pochi giorni nelle Dolomiti, più che sufficienti per andare a trovare, Pellegrino Pellegrini (1820-1891) di Rocca Pietore, una delle prime “guide alpine”. Vuole raggiungere la vetta della Marmolada. Paul Grohmann è la prima persona che desidera vedere il proprio nome scritto nel libro delle prime assolute, con qualunque mezzo. E questo con una certa dose di arroganza. In quell’anno però raggiunge solo la Marmolada di Rocca, ma questo non gli impedisce di presentarsi l’anno dopo con ancora maggiore ambizione a Cortina d´Ampezzo. Ha una fiducia illimitata nei confronti del vecchio Francesco Lacedelli «Checco de Melères». Nel 1809, a soli tredici anni, aveva già combattuto contro le truppe napoleoniche; a 67 è saldo come una fortezza, fisicamente in ottima forma e dotato di uno straordinario senso dell’orientamento. Il 29 agosto 1863 arriva sulla Tofana di Mezzo, poi è la volta dell’Antelao. Quando Grohmann viene a sapere che già nel 1850 un certo Matteo Ossi ha raggiunto l’Antelao, decide di tentare una scalata alla vetta con lui. E la descrizione seguente, dal libro “Wanderungen durch die Dolomiten” (passeggiate nelle Dolomiti) pubblicato da Grohmann nel 1877, esprime lo spirito di quel periodo e la brama di notorietà che lo caratterizzava. “Matteo Ossi disse di essere pronto ad accompagnarmi, ma ad un certo punto ha cominciato a pensarci, ha accampato scuse, ha dichiarato di aver sbagliato; in poche parole, non ritrovava più la strada … Ma le mie coraggiose guide ampezzane hanno subito individuato la giusta via. Alle ore 11.45 salimmo sulla cima dell’Antelao, e credo di poter affermare che raggiungemmo una vetta mai toccata prima.” L’Antelao “apparteneva” a Paul Grohmann, che cominciò a contestare persino la prima assoluta del Monte Pelmo da parte di John Ball.

Nel 1864, pieno di passione, è di nuovo sul posto. Alla prima scalata della Tofana di Rozes (3.225 m) il 29 agosto 1864, si aggregano spontaneamente due giovani abitanti di Cortina: Angelo Dimai e Santo Siorpaes. La febbre delle montagne si era impadronita anche di loro. Il 16 settembre 1864, Paul Grohmann è sul Sorapis. (3.205 m). Poi vuole conquistare la Marmolada, ovvero la cima più alta delle Dolomiti. La cresta si suddivide in diverse vette, con altezza decrescente da ovest ad est: Punta Penia (3.343 m), Punta Rocca (3.309 m), Punta Ombretta (3.230 m), Monte Serauta (3.069 m) e Pizzo Serauta (3.035 m). Nel 1860 John Ball insieme con la guida alpina Tairraz era arrivato soltanto fino alla ben più bassa Punta Rocca (3.309 m). Il 28 settembre 1864, invece, sarebbe stato finalmente il giorno della conquista. Insieme con le due affermate guide alpine ampezzane Angelo e Fulgenzio Dimai, ormai non tra le più giovani (45 anni), il ventiseienne Paul Grohmann raggiunge la vetta più alta di tutte le Dolomiti.
E negli anni successivi altre prime assolute: il Monte Cristallo, e il Boè, poi Paul Grohmann volge la sua attenzione alle montagne attorno alla Val Gardena e di Sesto. Il 1869 è l’anno di maggior successo: sulla cima dei Tre Scarperi nelle Dolomiti di Sesto sale con Franz Innerkofler e Peter Salcher; sempre con loro cerca di conquistare il re dei monti della Val Gardena, il Monte Lungo e ci riesce: Paul Grohmann è sicuramente il maggiore tra gli scalatori delle Dolomiti. Il 21 agosto 1869 conquista anche la vetta più spettacolare: la Cima Grande. Pubblica descrizioni e tiene relazioni, contribuisce alla creazione dell’associazione alpina, rende l’alpinismo molto popolare nella sua terra natale, ma 1873 il destino gli gioca un brutto tiro. Il benestante Paul Grohmann diventa di colpo povero: subisce un tracollo finanziario, perde tutto il suo patrimonio e diventerà un debitore a vita. Ormai è troppo vecchio per iniziare un nuovo lavoro e troppo orgoglioso per farsi aiutare. Vende ciò di cui può ancora privarsi, poi si ritira a Vienna in una stanzetta con un misero arredamento e continua a lavorare in silenzio a ciò che gli sta veramente a cuore: un libro sulle Dolomiti.

Paul Grohmann non è comunque l’unico. I Britannici possono ancora disporre di un’elite di scalatori ben preparata. Il 20 giugno 1870, E. R. Whitwell, la guida alpina ampezzana Santo Siorpaes e lo svizzero Christian Lauener riescono a raggiungere per la prima volta la «Hohe Geisel» (Croda Rossa, 3.148 m) che Paul Grohmann aveva mancato di poco, in precedenza avevano già conquistato Piz Popena nel massiccio del Cristallo (3152 m) e il Cervino delle Dolomiti, il Cimone della Pala (3.184 m). Tutte le vette sopra ai tremila rappresentavano comunque un’ottima performance. Nell’arco di vent’anni, austriaci ed inglesi erano riusciti a conquistare quasi tutte le vette dolomitiche, o comunque rendevano note le loro “vittorie storiche” nei libri principali delle associazioni alpine. Ai locali avevano lasciato solo le briciole. Verso il 1860 uno scalatore di Agordo, Simone de Silvestro, è il primo uomo ad arrivare sul Civetta.

Ma le Dolomiti di Sesto racchiudevano altre due cime importanti non ancora raggiunte: la Cima Piccola e quella Ovest. Michl Innerkofler, una guida di Sesto, fa parte dell’elite di scalatori di quel periodo. Il 31 agosto 1879 viene conquistata la Cima Ovest. Michl Innerkofler e Georg Ploner si dice siano stati i primi ad arrivare in cima. Nel 1880 Michl Innerkofler raggiunge in solitaria la Punta di Grohmann nella zona del Sassolungo, una scalata estremamente difficile. Nello stesso anno, il 2 luglio 1880, lo scalatore bolzanino Johann Santner aveva raggiunto allo stesso modo una vetta nella zona dello Sciliar, che lo rese subito famoso: la cima Santner. Il 25 luglio 1881, verso le 8.55 Michl Innerkofler e suo fratello Hans sono i primi uomini ad arrivare sulla Cima Piccola che, dato il suo quarto grado di difficoltà, rappresentava una scalata fino ad allora impensabile.

La maggior parte delle cime dolomitiche diventa quindi oggetto di prime assolute, sempre più uomini si riversano per i motivi più disparati nelle valli dolomitiche. A questo punto sopraggiunge la terza parte dell’arte dell’arrampicata. Dopo la fusione tra ricerca e alpinismo fino al 1850 e il periodo delle prime ascensioni fino al 1880, ha inizio una corsa alle varianti più difficili di queste montagne. E da questo punto di vista le Dolomiti offrivano i migliori presupposti in assoluto. Nel 1879 il viennese Emil Zsigmondy arriva a Sesto, dove osserva le vette più pronunciate. “Molte sono strutturate come aghi e nessun uomo potrà arrivare in cima senza utilizzare strumenti artificiali, come perni di ferro o scale”, scrive con grande entusiasmo. Cominciano le scalate fatte solo per il gusto di farlo, il gioco sul precipizio, dove gli innovatori devono prima creare un significato e poi farne capire l’importanza e la stravaganza al grande pubblico. Zsigmondy compie imprese pionieristiche nelle Dolomiti e diffonde l’alpinismo estremo. Purtroppo però ha vita breve: nel 1885 infatti, appena ventiquattrenne, muore precipitando nelle Alpi francesi. L’orazione funebre rappresenta una buona occasione per fare un bilancio. “È stato travolto dal destino, proprio come un soldato nel fervore della battaglia”. La lotta alla conquista delle montagne si trasforma in una vera e propria guerra. Una questione di sopravvivenza. L’orazione funebre per Zsigmondy diventa un’incitazione a combattere: “Per lui l’alpinismo era un intimo bisogno, ed egli ha contribuito alla realizzazione di una parte di quell’opera culturale in cui l’umanità è impegnata ormai da secoli in mille modi diversi e che continuerà finché anche solo l’ultimo esemplare della razza umana avrà un alito di vita”. La morte in montagna entra così a far parte della “cultura alpinistica”.

Il 20 agosto 1888, Michl Innerkofler muore sul Cristallo, una vetta su cui era salito più di trecento volte. “Michl Innerkofler non è riuscito a trattenere il doppio carico nella caduta, per cui ha urtato il bordo del crepaccio con una forza tale da spaccarsi il cranio, per poi cadere silenziosamente sul fondo”, scriverà un anno dopo la rivista del club alpino. Dalla cima, la guida cortinese Pietro Dimai assiste alla disgrazia. “Abbiamo sentito subito le grida di aiuto degli sfortunati e alla mia domanda su dove fosse Michel, mi fu risposto tristemente: anche lui è qui. Subito fu calata la corda e per primo fu tirato su il corpo senza vita di Michael Innerkofler, terribilmente sfigurato. Il lato sinistro della testa su cui il poveretto aveva sbattuto era completamente fracassato, i denti e gli occhi rotti, tanto da rendere la testa completamente irriconoscibile.“ Quando a Josef Innerkofler, una delle maggiori guide alpine di allora, viene riferito della morte di Innerkofler, stando a quanto si dice, sarebbe saltato in piedi dal tavolo della sua “Stube”, urlando orgoglioso: “Adesso sono io il re delle Dolomiti!” Un commento terribile, soprattutto perché quattro anni dopo morì anch’egli con un altro alpinista durante una spedizione verso la Cima Cinque Dita nelle Dolomiti della Val Gardena.

Ancor più breve è la vita di Georg Winkler, di Monaco. A 17 anni conquista in solitaria la Cima della Madonna nel gruppo delle Pale, si arrampica su per le creste dolomitiche ad alto rischio e al limite delle tecniche allora disponibili. Il 17 settembre 1887 raggiunge in solitaria la torre più ad est delle tre torri meridionali di Vajolet, da col momento chiamata in suo onore “torre di Winkler”. Ma appena un anno dopo, appena diciannovenne, muore sotto una valanga sul Weißhorn nelle Alpi Valaisannes in Svizzera durante una solitaria. “Sono il pericolo e l’infinita bellezza dell’alta montagna insieme che ci attraggono come demoni”, scrive poco prima di morire. 68 anni dopo il ghiaccio avrebbe restituito il suo tipico cappello di pelle, le scarpe da montagna, un pezzo di corda di canapa.

L’elenco dei temerari tuttavia non finisce qui. All’età di quindi anni, Viktor Wolf di Glanwell arriva nelle Dolomiti di Braies, a diciannove anni il bambino prodigio pubblica già le sue prime guide alpine, nel 1902 scrive con Günther Freiherr di Saar la storia alpina. Una delle torri rocciose più scoscese delle Dolomiti friulane è il Campanile della Val Montanara, alto 2.171 m. I primi a decidere di scalarlo furono gli alpinisti triestini Napoleone Cozzi e Alberto Zanutti, che tentarono l’arrampicata il 7 settembre 1902, ma dovettero arrestarsi a pochi metri dalla cima, lasciando un ometto di pietra in quel punto. Glanvell e Saar incontrarono per caso i due triestini in una taverna e questi raccontarono la loro avventura, dichiarando che, in quelle circostanze e con quei mezzi tecnici, la cima era a loro avviso impossibile da conquistare. A dispetto di questo, il 17 settembre 1902 Glanvell e Saar si misero in cammino poiché dopo attento studio ritenevano di aver trovato il modo di portare a termine con successo l’arrampicata, cosa che puntualmente avvenne, mentre le loro mogli li seguivano con lo sguardo.

Tre anni dopo una valanga rocciosa stronca la vita del trentaquattrenne Glanvell. Il 12 agosto 1897, Carlo Garbari, il miglior alpinista trentino, oramai scoraggiato, lascia un biglietto nella zona della Guglia di Brenta: “Auguro più fortuna a tutti quelli che potranno vedere questo biglietto!” Troppo spesso aveva dovuto arrendersi a questa difficile guglia, “la torre delle torri”, una sorta di obelisco libero, alto trecento metri, che oramai non credeva più possibile fosse vinta. La sua rinuncia fu sufficiente per spingere due scalatori di Innsbruck Otto Ampferer e Karl Berger a tentare a loro volta la conquista: a loro riuscirà l’impossibile e conquisteranno la guglia.

Nemmeno Paul Preuß, un altro scalatore delle Dolomiti, ebbe vita lunga: “Se non si riesce a scendere, non si deve nemmeno salire!”, dice. Interpreta l’uomo come misura di tutte le cose e rifiuta ogni ausilio tecnico. “La gente dondola su superfici lisce avanti e indietro, intere montagne vengono scalate semplicemente manovrando le corde. E tuttavia l’esperienza insegna che molti di questi punti devono essere scalati liberamente, in caso contrario, è meglio lasciar perdere”, scrive nella Deutsche Alpenzeitung del 1911. A 27 anni anche Paul Preuß trova la morte durante una scalata. In ultima istanza l’alpinismo attira anche perché è pericoloso. Cima dopo cima, picco dopo picco per il piacere di appassionati di alpinismo, locali ma anche stranieri, che prima avevano dovuto dedicare tutte le loro energie come contadini per procacciarsi di che vivere nei loro poveri masi, ma cui ora il denaro della perlopiù strana e ricca avventura porta benessere e invidia. Gli Innerkofler di Sesto, i Dimai, Siorpaes, Angelo Dibona di Cortina, Tita Piaz e Luigi Rizzi di Val di Fassa riescono, grazie alle loro imprese, ad elevarsi dal ceto contadino. Gli scalatori che accorrono da ogni parte del mondo, pagano profumatamente per essere guidati dalla gente del posto, aggiudicandosi per contro la fama eterna di primi conquistatori.

Nell’estate del 1900, Tita Piaz, originario di Pera in Val di Fassa e povero in canna, tanto da farsi regalare dal famoso albergatore Theodor Christomannos i soldi necessari per comprare un paio di scarponi da montagna, supera una crepa verticale nella parete di Punta Emma. Rischia la vita più volte, ma da quel momento in poi diventa per tutti il “Diavolo delle Dolomiti”. Nel 1915 Tita Piaz viene fatto prigioniero dagli austriaci perché ritenuto un “irredentista” filoitaliano, nel 1920 i nuovi italiani al potere lo eleggono sindaco, nel 1930 viene nuovamente arrestato sotto il regime fascista per incitamento alla sovversione, quindi viene liberato per poi tornare in prigione nel 1944, questa volta per mano della Gestapo tedesca. Questo alpinista estremo, sobillatore, cuore indomabile, non muore in montagna, ma nel 1948 cadendo dalla bicicletta.
Le Tre Cime di Lavaredo, il Civetta, le Pale di San Martino, la parete meridionale della Marmolada: sono questi i sogni di allora. Le proprie audaci imprese, magari abbellite oppure leggermente falsate da avventure e azioni eroiche, potevano essere raccontate a tutto il mondo.

Fonti:
Michael Wachtler: La storia delle Dolomiti